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Pier Cesare Bori: Essere gharîb in questo mondo (2004)

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Diffondiamo da “Inchiesta” 144-145 aprile-settembre 2004

I.1. Sono andato a insegnare in carcere, a Bologna, alla “Dozza” nell’autunno del 1998. Ho cercato questa esperienza non come una iniziativa umanitaria, ma come una verifica di ipotesi culturali e pedagogiche già in precedenza formulate e messe alla prova: la possibilità di un discorso etico di una formazione etica che potesse reggere alla prova della differenza culturale. Ho quindi cercato di lavorare soprattutto con stranieri, specialmente maghrebini. Molto presto, dalla primavera del 1999, mi hanno aiutato i miei studenti, del gruppo “Una via” (una quindicina, provenienti soprattutto dal mio corso di “Filosofia morale”).1

I.2. Le nostre attività, dirette a uomini e donne, e sempre con il decisivo contributo di tutto il gruppo, si posso così riassumere: (a) Insegnamento: un “Filosofia morale d’oriente d’occidente”, basato su una sequenza di testi raccolti nel fascicolo (ad uso interno) “Passi verso un ethos condiviso”. 2 ; (b) Più recentemente insegnamento e pratica della meditazione vipassana (un tipo di meditazione buddhista, che si pratica con successo in contesto detentivo in India e altrove), con letture successive alle meditazione (da Passi e altro); (c) Lavoro redazionale alla rivista del carcere, Ex-tra.; (d) Assistenza a detenuti-studenti universitari e anche ad agenti-studenti nell’ambito della convenzione Università-carcere.; (e) Accompagnamento nei permessi e accoglienza di detenuti in permesso durante le riunioni settimanali del gruppo; (f) Lavoro (in alcuni momenti, soprattutto quello iniziale) alla biblioteca della Casa circondariale; (g) Visite a famiglie di detenuti maghrebini, soprattutto da parte di chi scrive, con frequenti viaggi in Tunisia.

Quest’ultimo aspetto mi sembra particolarmente importante e innovativo. La rottura dei legami sociali, il sentirsi liberi dai legami (spesso opprimenti) della propria tradizione, l’anonimato (e l’assunzione di nomi diversi: alias) sono strettamente connessi ai comportamenti devianti. Il giovane immigrato (clandestino il più delle volte) si sente in un luogo dove tutto è permesso, ma al tempo stesso soffre per la perdita di un contesto famigliare ricco di rapporti e di affetti. Aiutarlo a ristabilire questi rapporti è in genere cosa buona per lui. Inoltre ricostruire le storie dalle origini, smettere quindi di considerare questi giovani come diversi che vengono dal nulla, senza storia, senza radici, rappresenta un grande guadagno di conoscenza in tema di immigrazione e devianza. Anche se questo si può fare in un numero limitato di casi.

I.3. I presupposti di queste attività potrebbero essere sinteticamente così enunciati. Anzitutto, perseguire direttamente la formazione morale. In carcere c’è la scuola, e moltissime altre attività condotte in modo eccellente dal corpo insegnante e da una schiera di volontari; c’è l’attività religiosa (cattolici, ma non solo), ma è difficile trovare esperienze di diretta assunzione del problema di una formazione etica non confessionale. Laicità, quindi, ma non nel senso di agnosticismo, ma nel senso del “pluralismo delle vie” e della “reversibilità” dei due discorsi, religioso e non religioso. Si tratta di mostrare che esistono molte vie spirituali, che in tutte occorre perseguire “virtù e conoscenza”, e che invece l’opzione religiosa è un’aggiunta possibile, indispensabile per alcuni, ma non per tutti. In terzo luogo, fiducia nella possibilità di una liberazione attraverso il sapere (Platone, “la caverna”), fiducia nella “luce che illumina ogni uomo” (George Fox e tradizione quacchera di presenza nelle prigioni), fiducia nella pratica della “consapevolezza” (sati, nella pratica buddhista vipassana), fiducia nella pedagogia della lettura di grandi testi: L. Tolstoj). Infine primato della cura di sé e del rapporto interpersonale rispetto all’antagonismo con l’istituzione (estremizzando, l’ultimo Foucault contro il primo!). Non sappiamo se la prigione sia riformabile, le persone lo sono sempre (e non si parla solo dei detenuti). Valutare i risultati è difficile quando si lavora sull’anima. L’unica obiezione che mi sento di respingere davvero è quella che ci rinfaccia un difetto di concretezza. Al contrario, aprire la mente alla comprensione di un grande testo, far gustare un poco la gioia, sottile ma reale, dello stare in silenzio e coltivare la consapevolezza, far intravvedere la dignità e la bellezza di una vita che pone il sapere al primo posto, questa è veramente l’unica cosa concreta che si possa fare per il breve tratto in cui si hanno davanti questi allievi detenuti che, soggetti a trasferimenti ed espulsione, destinati spesso a rientrare in clandestinità, possono svanire da un momento all’altro. E poi, sia come sia.

 

II.1. Altre esperienze migliori certamente esistono ed esisteranno. E ogni esperienza è fallibile. E tutto passa. Quel che resta più a lungo è il ricordo dei volti delle persone. Parlerò allora di Fathi. Ho conosciuto Fathi alla “Dozza” nella primavera del 2001. Fathi seguì le letture che facevo a un gruppo di detenuti allievi. Vicino ai trenta, alto alto, magro, un po’ curvo, con tratti marcati ma attraenti, timido e affettuoso. Soliti problemi di spaccio. Un primo ricordo è di Fathi che scrive, su un suo grande quaderno, che poi mi regala. Non sono scritti personali, sono da leggere insieme. Sono riflessioni in cui Fathi racconta il suo cambiamento . Attingo dalla lettera settimanale destinata al gruppo di giovani che lavora con me. 1° Maggio 2001. Fathi ha poi letto un suo testo. Penso che vi faccia piacere di averlo. Lo trascrivo, con qualche miglioramento formale:

 

Dio mio, vi ringrazio infinitamente

Il credente non sarà mai morso due volte nella stessa tana

Scopriti e sarai premiato:

per me è sempre stato importante, nel mio cammino.

All’inizio, ho vissuto i miei errori con tanta amarezza.

Sento che sono già affogato,la mia mente è in tilt,

perché non ho saputo sfruttare i miei errori:

e così sono disperso nel buio di una tempesta cattiva e spietata.

All’improvviso e grazie a DIO ho sentito un forte richiamo dal mio profondo

che mi dice: “Non mollare adesso e torna indietro,

perché ti sei scordato della tua barca (è importante!)”

E fin adesso sto cercando di mettermi in salvo mediante questa barca

e arrivare alla riva per poter cominciare dall’inizio.

E spero di incontrare un DIO che sa aggiustare la mia bussola,

per esser sicuro e certo che la mia ruota è quella giusta

per arrivare al premio finale.

Quindi, l’errore è sempre un bene se sai sfruttarlo,

affinché diventi simile a un premio o a un mattone guadagnato

da costruire e ricaricare l’anima,

per poter continuare la salita e superare l’esame in modo sano e sicuro.

Questa vita in realtà è una scuola

piena di stanchezze e di scoperte,di dolore e di gioia,

e sempre tra queste cose c’è la tregua, come l’albero tra le stagioni.

 

1. La pazienza è la mia barca per navigare il mare del dolore e della sapienza!

2. Non scordo mai l’errore, prima di aggiustarlo come deve!

3. Non c’è sapienza senza pazienza!

4. Non vivo del ricordo, per non perdere il treno della speranza!

5. Con la pazienza ho superato me stesso non sarà mai la mia anima prigioniera!

6. Dopo il passaggio delle nuvole nere che si sono manifestate nella mia mente ho scoperto la mia identità interna, E GRAZIE A DIO!

7. Voglio essere utile come un’ape, non come un simbolo di male, non come una zanzara che finisce nella lampada, bruciata!

 

Una notazione forse pedante: mi colpiva come, nonostante la dipendenza da molti stereotipi, Fathi recuperasse spontaneamente un genere letterario sapienziale antico e diffuso nelle culture semitiche.

 

II.2. Nei miei appunti ci sono poi notizie su una mia visita in Tunisia, alla famiglia di Fathi, a metà giugno del 2001. Fathi era ancora alla “Dozza”. …a pranzo, un kuskus, a casa della sorella di Fathi, e del marito, poliziotto (hanno due bimbi). C’è la mamma, un bel viso di vecchia, con tratti graziosi di bambina, e un dolore che non la lascia, e che investe anche il suo corpo: vuole vedere il suo Fathi, prima di morire. Un’altra sorella di Fathi, ha smesso di lavorare per assistere la mamma.

II.3. Il 6 novembre, a fine pena, Fathi è espulso, uno dei pochi. C’ è qui il racconto dell’incontro con lui in Tunisia, a metà dicembre 2001. Appena arrivato, ho preso contatto con Fathi. E’ venuto ieri mattina all’hotel. Alto, tipo orso, tenero, triste e intimidito dai miei amici, dal lusso dell’albergo… Sempre il suo cappello a visiera in testa. E’ qui dal 6 novembre, espulso. Giriamo nel quartiere del Bardo per trovare la famiglia di … ho delle cose da portare loro. Li troviamo. Sempre bello nobile il popolo, le donne, gli anziani, i bambini, visi puri aperti sorridenti senza paura, cortili giardinetti, case non ingombre di mobili, cortesia signorile, strana serenità nella disgrazia, dolci per la festa che viene.

Fathi voleva ritornare dalla madre, ma non si aspettava di tornare in quel modo, non gli va giù, non ha neppure potuto prendere 700.000 lire guadagnate con il lavoro in carcere. E’ solo, non ha più amici, non ha una ragazza. Giriamo per la Medina in cerca di libri, dice: sono 13 anni che non vengo qui (è stato 8 anni in Italia). Sono “gharîb”, straniero dice.” Anch’io”. “Io molto di più, persino in casa”. Quella parola “gharîb” è illustre, appartiene anche al lessico mistico, Ma per Fathi è dolore puro.” Preghi?” “Adesso no”.” Ma con il cuore?”” Ah, sempre sempre, te lo giuro”.

Già, Dio. Nel video, Ben Laden saluta con deferenza l’amico teologo saudita, e gli cita gongolante qualche parola di Dio che comanda il massacro, e giù risate. Con gli amici la sera ci perdiamo nelle congetture, les américains, les arabes, infinite elucubrazioni senza costrutto, si esce solo frustrati, basta, si va a dormire. Poi ci si sveglia in piena notte. Possibile che non ci sia nulla da fare? Noi, che cosa stiamo facendo? Chi siamo? Certo nel cosmo che la Forza governa, siamo niente. No, quasi niente: un niente che può pensare, agire. “Un cuore che pensa”.

Sabato mattino, vado con Fathi (un altro punto a suo favore: perfetto, ad un appuntamento non molto preciso) a vedere la famiglia di Hedy. Grande famiglia, donne ragazze ragazzi bambini, occhi che spuntano da ogni parte, tutti indaffarati per preparare la festa, si scusano. “Sabour”, grandi pulizie, acqua dappertutto, mani umide. Torniamo.

La sera, mi viene a prendere Hamida, la sorella di Aziz, detenuto dalla posizione gravissima (oltretutto, anche menomato da un incidente). Giovedì era venuta all’albergo, con la mamma, a portarmi dei soldi e un documento. Tutt’e due molto carine. Mi invitano a cena, il quartiere è Saida Manoubìa (dove c’è il santuario di una famosa santa, abbiamo letto una volta qualcosa in proposito). Il taxista si precipita, è quasi il tramonto, muore di fame, qui si digiuna (anch’io, in questi giorni, il digiuno finiva appunto ieri sera). La casa è piccola, siamo in quattro, c’è anche la sorella. Il padre è al lavoro, in un pasticceria, ha meno di cinquant’anni, ma dalla foto sembra un vecchio (anch’io sono un anziano, ai loro occhi, e questo mi guadagna rispetto e rende tutto più facile). C’è un braciere,”kanûn”, mangiamo stretti stretti, a terra. Vogliono sapere di Aziz, parlano solo arabo, il mio è debolissimo, comunque miracolosamente va. Quando devo dire della sua posizione, lacrime impetuose erompono, poveri occhi. Per fortuna c’è anche un gattino (Tina?) molto curioso e intraprendente, un jinn benefico in una casa piena di dolore (un’altra figlia morta in un incidente stradale, Hamida è separata). Le figlie lavorano da parrucchiere. “Dì a Aziz di avere pazienza”, “sabr”, è la parola chiave dei poveri, ma non è solo questo, è coraggio puro, prezioso, glorioso più di quello delle tribù guerriere (compresi i marines) che la CNN ci mostra in diretta.

Domenica mattina è “id al-fitr”, festa della rottura del digiuno, festa popolare, festa delle famiglie, vestiti nuovi, doni per i bambini. Ma io sono in albergo, “gharîb” (ricordo adesso anche “Stranger than Paradise”). Il pomeriggio con Mohammed K. vado a trovare presso a Grombalia i genitori di un altro detenuto, il primo chi mi ha ospitato, un anno fa. L’aranceto adesso è possente, il padrone ci mostra orgoglioso la nuova irrigazione goccia a goccia. Parlano di Kairouan, della sua gloria passata (lui non lo sa che è passata). Al ritorno, scambierò idee poche con M., capisco un po’ meglio il mi ospite di Beni Khalled,il suo peculiare idealismo-opportunismo.

II.4. E infine, la partenza. Vedo ancora Fathi e la sua famiglia. Fathi ci potrà aiutare per tenere i contatti. Prima di lasciarci, facciamo un po’ di silenzio. “Ho pensato a te, poi al gruppo” mi dice. II.4. Poi c’è il ricordo di un mio successivo viaggio, nel febbraio 2002:

Arrivo 22 febbraio 02. Non ho più potuto sentire Fathi, ma spero che mi aspetti all’aeroporto. Lo cerco, ma non c’è. Vado allora al mio solito albergo, piove, sono po’ triste. Faccio telefonate, riesco a parlare anche con la sorella di Fathi, ma lui è rimasto “fil-bled”, in campagna, da suo zio. L’avranno avvertito che dovevo arrivare? O avrà qualche problema? Faccio altre telefonate, riempio i due giorni di appuntamenti…

Il giorno dopo mi dedico alla famiglia di M. Per prepararmi pian piano scelgo il trenino, il TGM, lungo il mare. Conto le stazioncine, Sidi Bou Said, Hannibal, Presidence (ci abbiamo vissuto un mese) Le Kram, La Goulette, poi piedi fino Bab el-Bahr. C’è vento, ma non piove più. Mi faccio accompagnare in taxi per le stradine, sino alla Medina più povera. Si apre la porta ed ecco il cortiletto, eccoli tutti i parenti di Hedy, la mamma, il fratello, il cugino. Il nonno (centenario) stava dormendo nella stessa stanza, completamente coperto, all’inizio non mi ero accorto di lui. Cominciano le presentazioni, ci sediamo, facciamo ridendo l’albero genealogico della famiglia, almeno il ramo principale. C’è Karima, graziosa, con i capelli dritti tipo punk, sorella, che insegna francese e arabo,poi gli altri, un bimbo di sei mesi, che si chiama col nome solenne del nonno, poi c’è l’altro ramo… Tutti nella stanza. Mangio con alcuni di loro (i maschi, ma prego Karima di sedersi con noi) il piatto forte della festa, la kirsha, lo stomaco di montone imbottito di carne, othbên, bevendo leben, latte cagliato (mi sono perso ieri lo sgozzamento del montone, ma non me ne rammarico). Si diventa allegri, fratello e cugino fantasticano di venire in Italia. Scherziamo sulla Ferrari rossa che il cugino si comprerà in Italia, con un interno di pelle gialla, e un computer…In tutta questa grande famiglia, solo tre lavorano. H. ha lo sguardo triste di M. a Bologna, I. è sfrontato e tenero. Ho ammirato in altri momenti la bellezza ovale delle ragazze, la dignità placida delle donne, ora questa è l’ occasione di penetrare un poco nel cuore di questi giovani uomini, fieri, allegri e sconsolati. Mi accompagneranno su un furgoncino ancora al TGM, le stazioncine al rovescio. Per oggi basta, forse basta anche questo racconto (ho visto poi S., la sera, e poi le due graziose sorelle di W., con la loro mamma, a casa e poi ancora M. giocatore di calcio, amico di F. …, e il bravo collega R.).

Andando da loro, avevo fatto visita a Nostra Signora nella Cattedrale cattolica, S. Vincenzo, un piccolo cedimento idolatrico (ma non sono forse un “Franj”? l’antico nome degli invasori crociati). Al ritorno mi son fatto portare da un eloquente taxista in cima al cimitero di Sidi ben Ahsan, e mi sono raccolto contemplando dall’alto quella miriade di lastre bianche nel verde, uno sciame orientato verso la Mecca. Io però non ero orientato secondo la “qibla”, e il taxista me l’ha fatto notare. Io gli avrei potuto citare al-Hallaj: “Tu che biasimi il mio amore per Lui, come sei duro! Se sapessi Chi intendo, così non faresti. I pellegrini vanno alla Mecca, ed io da Chi abita in me. Vittime offrono quelli, io offro il mio sangue e la vita. C’è chi gira attorno al suo tempio senza farlo col corpo, perché gira attorno a Dio stesso, che dal rito lo scioglie”.

Il giorno dopo, ancora nel vento, camminando lungo il mare di La Marsa, leggo Qohelet (devo prepararmi, ho un seminario a Roma). Mi fermo subito alla traduzione di “havel havalim”, “vanitas vanitatum”, “un infinito vuoto” (Ceronetti 1970), “fumo di fumi” (Ceronetti 2002), ma Erri De Luca: “spreco”. Penso ancora a quel pullulare di vita nella Medina, a quella famiglia a Fathi… a Sidi ben Ahsan. “Spreco” di vita, scempio. “Tutto è spreco e compagnia del vento” (vi ricordate l’”orribile vento del niente più niente” della poesia della Ortese). Ma poi ho ricordato il “vento di Elohim che covava sulle acque” (vento è femminile). No, tutto non è spreco e scempio, buono è il vento. Partendo scrivo a Fathi. “Il tuo amico non ti dimenticherà”. Non mi sfuggirai, piccolo Fathi.

 

II.5. In un viaggio successivo, apprendo ai primi di maggio 2002, incontro Fathi: era in prigione militare perché aveva evitato il servizio militare! Mi accompagna a visitare due famiglie. Gli comunico che l’avvocato (che cosa ha fatto per lui?) ha incamerato le 700.000 lire che si era guadagnato con il lavoro in carcere. Tuttavia lavora un poco come pescatore, nella laguna di fronte a Tunisi, i padroni sono siciliani.

Appunti di un mese dopo:

Domenica 15 giugno 03… dopo trovo Fathi (il telefono ha ripreso funzionare). Lo trovo a casa sua, dove incontro anche il fratello, sposato con un bambino piccolo. Lavora (saltuariamente, capisco poi, la sorella me l’aveva detto). Sempre estraneo, gharîb, in questo paese dove c’è una piccola libertà (le donne, per esempio), ma non quella grande, vera, politica, di opinione. Mi mostra un libro che sta leggendo, sul problema della disoccupazione. Ha una ragazza, nuova, ma non è ufficiale. Mi mostra i pesci che si pescano nella laguna, e dove anche lui lavora. Domani mi accompagnerà ad una casa di un nuovo detenuto.

Dopo, a casa di Hedy che se ne è andato, apprendo che comunica con loro. Scherzo sempre con I. “Poveri ma belli”. Commerciano in serrature, rubinetti. Vedo molti della famiglia… Dormono tutti nella camera più grande (che diventa, dice, come i camion in cui caricano le auto che arrivano dalla fabbrica!).

Esco nel suq al-Asr, “roba vecchia”, si dice così, in italiano, anche a Tunisi.

II 6. Nell’autunno rivedo Fathi, adesso lavora come muratore. Vado con lui in una libreria al centro. Devo comprare dei testi scolastici per vedere come si insegna la religione ai bambini. Fathi è seccato (“Voi siete sempre lì a studiarci”), ma mi aiuta. MI fa conoscere la sua ragazza. Quando si potranno sposare, così, senza soldi?

Infine, marzo 04. Incontro di nuovo Fathi. Si è fatto crescere una barba che gli gira sotto il mento. Mostra al suo vecchio insegnante il libro che sta leggendo ora. Si tratta adesso di un libretto sul “giardino del Paradiso e il fuoco dell’Inferno”. Scherzo con lui: “Ahi ahi, letture pericolose, ya habibi, tesoro, non sai che l’inferno, è incostituzionale? La pena, tu ne sai qualcosa, deve essere proporzionata alla trasgressione”.

Ma uscendo, con un mio amico antropologo tunisino, ci interroghiamo. E’ ancora unicamente la sua pietà personale? Oppure è caduto nella propaganda integralista? Tremo per lui, Fathi il gharîb. Poi ripeto: “il tuo amico non ti dimenticherà. Non mi sfuggirai, piccolo Fathi”.

 

 

NOTE

1 Per tutto quello che segue, con i presupposti teorici e con la descrizione delle attività e della pratica meditativa (sino ai primi mesi del 2003), cfr. il mio Universalismo come pluralità delle vie, Marietti 1820, Milano-Genova 2004. Nella esposizione successiva, i nomi delle persone e dei luoghi sono cambiati o omessi.

2 Cft. http://www.spbo.unibo.it/dist/biblioteca/passi.htm


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