Per ricordare Pier Cesare Bori morto due anni fa il 4 novembre diffondiamo due testi trascritti da Lucia Biondelli basati su interviste fatte a Pier Cesare Bori da Gabriella Caramore nella trasmissione radiofonica di Uomini e Profeti .Viene segnalato a Bologna la sera del 4 novembre al Centro Yoga Le vie, Via D’Azeglio 35 , un incontro per ricordare Pier Cesare Bori a due anni dalla morte
1. Pier Cesare Bori: La teologia dei Quaccheri . Intervista di Gabriella Caramore nella trasmissione radiofonica Uomini e profeti Domenica 26 aprile 2009
Gabriella Caramore: Come può essere descritta la teologia dei Quaccheri?
Si afferma la presenza, in ogni uomo, della Luce. In realtà è una teologia molto, molto profonda, perché l’idea di fondo è questa: come il peccato di Adamo nel racconto di Paolo ha investito e contaminato tutta l’umanità, così l’opera di salvezza del Messia, che è il secondo Adamo, investe tutta l’umanità e come il peccato avvelena tutta l’umanità senza il consenso, senza la consapevolezza neanche, così la salvezza invade e pervade e illumina ogni uomo.
Quindi viene meno anche il bisogno del proselitismo, occorre comunque che ciascuno riconosca questa luce, riconosca “il tempo della visita” dice Barclay, che è un grande teologo – che non seguiremo – ma che in realtà è l’unico grande teologo, Robert Barclay del 1675.
Quindi c’è questa presenza di luce in tutti e c’è la possibilità per tutti di ricostruire questa immagine di Dio.
E Fox ha l’esperienza – è poco prima del testo che abbiamo letto – di essere ritornato nel Paradiso di Dio, della ricostruzione in lui, attraverso Cristo, dell’immagine di Dio perduta e dell’idea che è possibile quindi in terra affermare una comunità, una umanità, una comunità è una persona nuova che sappia di nuovo rappresentare in terra questa Imago Dei.
E lui dice, giustamente, siamo solo noi che abbiamo questa idea, perché le grandi Chiese cosa dicono? <Siete salvati>, però intanto, come ad un gruppo di schiavi al remo si dice: Siete stati riscattati, ma intanto remate! Così le Chiese dicono: <Siete stati salvati, ma siete ancora nel peccato> sia le grandi Chiese, sia anche i Puritani. Quindi c’è un fondo di antropologia fiduciosa e ottimistica, in questa concezione,
Gabriella Caramore: una fiducia nella creatura umana che
viene su fondamenti teologici, su fondamenti di una Cristologia molto precisa
Gabriella Caramore: che può essere illuminata dallo Spirito, lo Spirito può illuminare ciascuno e ciascuno può essere un piccolo seme che cresce
Ma è l’idea di una escatologia realizzata, cioè: se è vero che il Messia è il secondo Adamo e che rifà al contrario quell’opera, allora vuol dire che quest’opera è in mezzo agli uomini, è disponibile
Gabriella Caramore: quindi la visione del Regno per Fox è che il Regno è qui, può essere qui…
è a portata di mano.
2. Pier Cesare Bori : Sulla preghiera. Intervista di Gabriella Caramore a Uomini e profeti del 22 ottobre 2011
Gabriella Caramore: Nella lettera circolare che si chiama Una via – dove scrive degli appunti derivati anche in parte dagli incontri che lei tiene con gli studenti, in carcere ecc. – in una delle prime di queste lettere lei riflette un po’ sulla malattia, fa alcune considerazioni sul dolore fisico e sul senso… come se fosse una scoperta di dover vivere nella presenza… Che cosa ha inteso dire con questo?
Ad un certo punto mi è venuto da scrivere… Avevo finito l’operazione ed ero in attesa di cominciare una chemioterapia che si presentava molto difficile e impegnativa… Fra l’altro non è stato così, e sono a metà e sto abbastanza bene…
Gabriella Caramore: … questo ci rallegra moltissimo
Comunque dicevo: Che sappiamo vivere il presente nella presenza, questo è l’essenziale e questo chiediamo
Gabriella Caramore: Vivere il presente nella presenza: che cosa vuol dire, lo spieghi a chi ha difficoltà…
Non è il tema del vivere il presente che è caro agli antichi
Gabriella Caramore: …ai classici… Orazio
In senso etico forte, ma è l’idea del stare nel presente, un sì alla vita e al mondo, un credere nella vita e nell’amore, nella consapevolezza – al tempo stesso – che non è tutto lì, non è tutto lì!
Gabriella Caramore: che c’è altro… Quindi questa Presenza con la P maiuscola sta a significare per lei quel qualcos’altro che c’è
Qualcos’altro che c’è, indirettamente… Qualcosa difficile da spiegare…
Gabriella Caramore: sì, ma piano piano…
Se noi stiamo nel presente, nel dolore, nella ferita… ecco, non fuggiamo, ecco… si presenta la possibilità di cogliere come non è tutto lì, c’è un oltre che va al di là del presente ed è per me questa Presenza, ecco, a cui si può dare un nome e allora diventa una forma di fede definita o di preghiera definita, si può anche non dare un nome e allora la preghiera, perché questa è preghiera, o contemplazione, è un’apertura.
Gabriella Caramore: Dare un nome… ciascuno dà il nome che conosce
Però è nello stare nel presente che ci si apre alla Presenza. Lei sa che io perseguo un po’ una…diverse pratiche: di tradizione sono da un lato legato a un cristianesimo radicale, quello dei Quaccheri, dall’altro molto vicino al Dhamma, alla pratica buddista. Ho trovato un passo molto efficace in Udana…. che è un testo buddista, dice:
“Tu dovrai esercitarti così: quando in ciò che è visto ci sarà solo ciò che è visto, in ciò che è udito vi sarà solo ciò che è udito, in ciò che è percepito vi sarà solo ciò che è percepito, in ciò che è conosciuto vi sarà solo ciò che è conosciuto, allora tu, Vaya, non ti identificherai più con quello, e quando non ti identificherai più con quello, tu non sarai più in quello, quando non sarai più in quello, tu non sarai né qui, né al di là, né in ambedue. Proprio questa è la fine della sofferenza.”
Non si tratta di uscire dal mondo, ma si tratta di un certo sguardo sul mondo, un certo punto di vista sul mondo, che contiene in sé in maniera indiretta, ma vera, sottile ma vera, la “La” Presenza, quell’Altro che poi io dico essere, in termini biblici, l’esito di quel percorso che ci porta alla somiglianza, dall’immagine alla somiglianza, cioè la capacità di guardare le cose con lo sguardo di Dio. Usando la terminologia biblica…
Gabriella Caramore: Poi torneremo su questa terminologia biblica che è quella che ci è più vicina, inevitabilmente… Tornando invece sul tema della preghiera: che cosa significa per lei, a questo punto, pregare? Le vorrei anche chiedere se questa esperienza ha cambiato la sua preghiera
Sì, io mi ricordo che parlai una volta e usavo molto, in quel momento, l’invocazione allo Spirito, la Luce, la Forza. Adesso non mi sento più… importante questo accento sul fatto che ho imparato a perseguire ciò che sento per me vero, buono, salutare, utile. Non voglio più fare, a questo punto, delle pratiche, delle cose, che non corrispondono al mio profondo. Quindi, magari, se si è con altri, per cortesia, per desiderio di comunione posso anche partecipare a delle pratiche, ma per me la preghiera è un atto contemplativo senza parole, è silenzio dei sentimenti, dei pensieri ed è apertura, è disponibilità, è questa cosa che poi ho trovato bellissima, nella poesia di Eliot, che dopo forse ricorderemo, che è un “wait”, che è “aspetta”, aspetta, stai aperto, senza parlare. Io credo che questa sia preghiera. E poi anche l’aspetto di riversare affetti e pensieri buoni per gli altri, anche questa è preghiera e forse anche un senso di comunione con chi soffre, e forse anche la comunione con colui che è stato trafitto.
Gabriella Caramore: A queste cose ci arriviamo…
Il punto fondamentale però, per me, è questo silenzio del corpo, della ragione, dell’intelletto… è un atteggiamento, appunto, contemplativo, è uno stare, è un dimorare, magari dimorare juxta crucem presso la croce, sotto la croce, ma stare, ecco, stare fermi, non so se mi spiego…
Gabriella Caramore: Sì, è molto bello questo suo andamento, trovo, anche in questo parlare in cui appunto il suo riferimento poi torna alla croce, alle parole bibliche ecc. ma nello stesso tempo se ne allontana. Che cos’è allora, secondo lei, pregare insieme? Ecco noi vedremo poi anche la preghiera di Assisi, ma anche lei ha esperienza dello stare insieme con l’altro
Pregare insieme è ovviamente un gesto importante, un gesto sociale, di comunione, può essere molto – diciamo il termine – utile, salutare. Ho letto per esempio durante la malattia un libro sul cancro, molto bello, di David Servan-Schreiber, che citava uno studio sul rosario e sulla sua importanza. A volte mi sono unito a un rosario e mi è piaciuto. A volte mi piace partecipare alla Messa con il mio cardinale che era mio compagno di scuola poi. E’ bello, è bello ma non è lì il punto, insomma. Però c’è questo aspetto – diciamo – che non rifiuto, ma il punto fondamentale è invece l’atto contemplativo, di questo stare senza desideri, senza pensieri… Temo che questo sia il Quietismo, l’immobilismo, ferocemente distrutto dai Gesuiti a fine Seicento. Temo… perché c’era troppo poco “lavoro” (ride), non andava bene stare così fermi, era troppo semplice.
Gabriella Caramore: Ci voleva un po’ più di attivismo.Volevo leggere dal Secondo Quartetto di Eliot che lei ha citato:
Ho detto alla mia anima, chetati, e attendi, senza speranza.
Speranza sarebbe per cosa sbagliata.
Attendi senza amore, perché amore sarebbe per cosa sbagliata.
C’è tuttavia la fede, ma la fede, e l’amore e la speranza sono tutti nell’attesa.
Attendi senza pensare, non sei pronto per pensare.
Così l’oscurità sarà la luce, e la quiete, danza.
Sussura di fiumi che scorrono, di lampi d’inverno, il timo selvaggio nascosto e la fragola selvatica,
la risata nel giardino, eco di un’estasi non perduta,
me che esige, indica l’agonia di morte e nascita.
Questo lei lo ha sentito molto suo.
Sì, mi è stata segnalata da un’amica inglese. C’è questo punto “attendi” “wait without thought”, non sei pronto, attendi senza pensare.
In questo atteggiamento l’oscurità sarà luce e la “stillness” è una parola molto bella – “immobilità e silenzio” – sarà danza. E qui il poeta si apre ad una visione che io credo sia paradisiaca, del paradiso originale, allora potrai parlare…
Gabriella Caramore: Un’apertura anche fuori, al di là dei contenuti, lei dice…
E’ una missione altissima… teologia, in questo, lui non ignora il buddismo, è stato così vicino al buddismo.
[interviene la seconda ospite, Ilaria Morali, che insegna teologia alla Pontificia Università Gregoriana e lavora sul dialogo interreligioso e sulla riflessione teologica cristiana sull’alterità, Gabriella Caramore la sollecita sull’intervento di Pier Cesare Bori]
Gabriella Caramore: Che impressione le facevano le parole, prima, di Pier Cesare Bori rispetto a questo ipotetico pregare insieme/ essere insieme per pregare?
Ilaria Morali: Ma, io da un lato, rispetto moltissimo quella che è la testimonianza che nasce da una situazione, da una esperienza di sofferenza molto grande, quindi che si percepisce in tutte le sue vibrazioni e nella sua profondità, dall’altra mi chiedo, quando parla di preghiera come “perseguire ciò che sento per me utile” se non sia forse un modo di concepire la preghiera un po’ legato alla propria situazione personale, ma anche limitato, quando per me la preghiera è un atto essenzialmente dialogico nei confronti di chi è il nostro interlocutore nella preghiera e comunionale – pregare come atto insieme ad altri, anche se io sono solo, anche se io sono in questa condizione, atto di condivisione, atto di partecipazione totale che può essere anche vissuto nello stare in silenzio davanti anche al mistero della sofferenza umana, che mi accomuna a tante persone.
Gabriella Caramore: Naturalmente è inevitabile che – Bori, anche a lei lo chiedo – che la preghiera si ponga all’interno di una tradizione, però è il suo dipanarsi che può andare in direzione di una universalità, perché la preghiera, appunto, da una parte per se stessi, cioè quello che si riesce ad essere in quel momento, in quella preghiera, ma dall’altra se non abbraccia, lei diceva prima gli altri, la sofferenza degli altri, resterebbe sterile.
Quando io parlo di “utile” – è un termine in realtà che c’è nel buddismo, è “Upaya”[1], viene usato anche da teologi cristiani – è un presupposto antropologico, fondamentale per me, cioè di fiducia in se stessi, e quindi io pregherò a partire da me stesso, a partire da quello che sono, a partire da quello che sento di essere. A partire dalle parole che sento vere, e se non ci sono parole, non userò quelle parole, salvo, ecco, come dicevo, in momenti di condivisione, in cui prevale, poi, la condivisione, magari anche la cortesia, la gentilezza nel senso più profondo.
Gabriella Caramore: Quindi lei dice: “a partire da qualcosa di vero”
Partire da quello che sento vero. Io non mi sento più di ripetere delle parole che, appena mi soffermo un attimo, mi creano turbamento, confusione, interrogativi e problemi. Questo non mi impedisce, per esempio, di sentire una comunione profonda con Gesù, io dico “trafitto”, però…
Gabriella Caramore: … però sente difficoltà con la dottrina, immagino…
Sì, se appena comincio ad assecondare con il pensiero queste emozioni, allora comincia una fase di turbamento che non giova, che non è buono, che non è salutare e di nuovo questo criterio per me è fondamentale. Capisco che, per chi viene da una tradizione… per chi sottolinea del cristianesimo gli aspetti più problematici e più pessimistici, questo criterio della “self-reliance”- “la fiducia in se stessi” possa essere a sua volta problematico.
Gabriella Caramore:… ritornando un po’ al senso della preghiera di Assisi… perché poi, ecco, l’impressione è che talvolta si faccia attenzione più al dialogo nella visione della chiesa e delle chiese, delle comunità religiose che non all’esperienza di essere insieme in una comune condizione creaturale e, appunto, volti verso un altro, verso un aperto.
Gabriella Caramore: Nelle cose che diceva Bori coglievo anche il senso di un andare alle cose ultime e lì, effettivamente, le differenze si annullano, perché c’è, appunto, la nostra vita umana che è uguale sia che uno sia buddista, cristiano, ateo…
Ilaria Morali: assolutamente, la condivisione dell’esperienza umana nella sua finitudine, anche nelle sue dimensioni ultimative, è il punto di partenza essenziale, io dico sempre: quando entriamo in dialogo – e credo soprattutto ai dialoghi fatti con le singole persone non ai dialoghi, diciamo, in questa forma un po’ globalizzata – sono dialoghi che poi vanno a toccare gangli vitali della vita umana e su questi grandi temi, su queste grandi sfide che appartengono alla nostra esistenza, si gioca nella differenza la capacità di accoglienza reciproca, di stima e anche di mutuo aiuto.
Gabriella Caramore: A questo proposito ritornerei con Pier Cesare Bori sul tema… lei ha citato molte volte questa espressione: “ la comunione con Colui che è stato trafitto”. Ecco, la comunione con Colui che è stato trafitto che significa poi? Comunione con chiunque sia trafitto?
Comunione… beh, anzi tutto io mi riferivo al vangelo di Giovanni in cui si parla, in cui si dice: “Vedranno/Guarderanno colui che stato trafitto” Quindi, anzi tutto, Cristo trafitto e… qui ho scavato un po’… c’è una citazione di Zaccaria 12, 10 – strana citazione – impressionante perché dice: “Guarderanno a me, a me che hanno trafitto e faranno lutto, faranno duolo su di lui” ed è Dio che parla.
“E faranno duolo su di lui” cambia e ho scoperto, poi mi è venuto in mente: forse questo spiega l’unica citazione, l’unico testo nel Nuovo Testamento in cui Gesù, o il Cristo, è detto <Dio> direttamente: “Mio Signore e mio Dio (Theos)”.
Dio si rivela nella ferita, Tommaso tocca la ferita e riconosce, nella ferita, Dio, perché è stato Dio trafitto. Questo mi ha molto impressionato.
Gabriella Caramore: E questo a che cosa la porta?
Mi porta… Non mi porta da nessuna parte… non voglio andare avanti. Riconosco la grandezza di questa tradizione del Deus patiens, del Dio che soffre, però non voglio andare avanti perché so che su questo poi dopo cominciano le teorizzazioni, cominciano le lotte, spuntano fuori poi i falò (ride), i bastoni, i roghi… e allora non voglio teorizzare per niente, e preferisco invece la comunione con Israele, che è stato trafitto, con Giosìa, perfino con Tamuz o Adonis o Addad, le divinità che morivano e risorgevano nell’antichità, oppure, sì, con le persone che hanno sofferto di questo mio stesso male.
Scusi la cosa a parte… è perché mi hanno fatto un buco e sono rimasto per due mesi con un buco da cui usciva sangue e acqua… quindi c’era un motivo molto, molto personale…
Gabriella Caramore: … di essere vicino al Cristus patiens… ecco ma lei dice anche, appunto, “e non credo che un Cristo sofferente possa dividere. Come potrei accettare di essere diviso dai miei amici ebrei, mussulmani per queste cose? Senza di loro io rifiuto di entrare in alcun luogo promesso”
Sì, questo perché ho presente che i mussulmani non accettano la morte del Messia, anche per gli ebrei, evidentemente, quel testo di Zaccaria si riferisce a tutto il popolo ecc. allora io non voglio entrare in questa faccenda, io sto fuori, fuori, ecco, non voglio nessun premio e nessun luogo promesso, senza i miei amici.
Gabriella Caramore: Eh, Ilaria Morali…
Ilaria Morali: Invece così, io la vedo in un modo un po’ diverso nel senso che, come dicevo prima, la differenza diventa la sfida della comunione…
Sono parole queste, sono parole, sono parole…
Ilaria Morali: e qui mi viene in mente un altro aspetto, un altro esempio di come, ad esempio in Giappone, ne parlavo con Maria, ci siano cristiani che sono magari una singola persona all’interno di una famiglia, che al momento della morte ricevono delle esequie per volontà della famiglia non cristiana che sono l’essenza stessa proprio del rito cristiano…
Gabriella Caramore: Eh si ma questo non è che deve portare a pensare che il cristianesimo è superiore perché qualcuno aderisce…
Ilaria Morali: No, no, ma non sto parlando di superiorità, sto parlando proprio di desiderio da parte della famiglia buddista, che il proprio amico, il proprio congiunto possa essere celebrato nel modo che egli avrebbe più voluto nella sua fede e viceversa, il cristiano che vuole per il buddista questo.
Io conosco bene il Giappone, abbastanza bene, ho insegnato là, e c’è una concezione diversa del rito, per cui per esempio piace molto – anche in Cina – sposarsi da cristiani. Ecco, questa è una visione che non tocca in profondità il fondamentale relativismo di queste culture. Non bisogna dare troppa importanza a questo fatto.
Gabriella Caramore: Beh sì, perché sono poi culture che accolgono nella propria vita, nella propria esistenza, forme diverse. Ecco, però le volevo chiedere Bori, la volevo ricondurre alla questione del processo contro l’Eternit, anche perché forse fare giustizia, chiedere giustizia è un altro modo per pregare insieme, no, Bori?
Sì, appunto, nella misura in cui si riesce attraverso la contemplazione a lasciare andare un poco l’io e il mio, il cuore si apre all’attenzione e alla comunione e alla richiesta di giustizia.
Gabriella Caramore: E a che punto è la richiesta di giustizia per questi danni?
C’è un grosso processo, c’è un processo in corso, a Torino, con il pretore Guariniello, con 6000 persone costituite come parte civile, ci sono circa 1600 morti, a Casale, in quella zona, Alessandria… c’è una lettera – recentemente – in cui la signora Romano e altri, i sindacati, segnalano il problema gravissimo, costituito da quella modifica legislativa che consentirebbe il processo lungo, per cui le parti che si difendono hanno citato 2900 testi, con l’obiettivo di pregiudicare il processo.
Gabriella Caramore: Tra l’altro è impressionante la durata, l’esito di questa… lei negli anni ’50 ha contratto la malattia
Negli anni ’50, ’60…
Gabriella Caramore: quindi è impressionante il numero delle persone che possono essere colpite
Sì, ma ce ne saranno sempre di più, nel senso che il picco si prevede intorno al 2020, 2022… cioè di giovani come me che hanno respirato questa cosa..
Gabriella Caramore: …respirato! Anche di questo si parla forse troppo poco ecco, mi chiedevo, appunto, se cercare e chiedere giustizia, sia anche questo un modo di fare preghiera.
Sì, sì.
Gabriella Caramore: Su questo ci dobbiamo salutare, mi dispiace è troppo breve questo incontro!
Volevo dire una cosa: per me questa esperienza è stata un dono, un privilegio di poter aver fatto questo percorso così difficile.
[1] “Upaya” is Sanskrit for “skillful means” or “method” – “Upaya” è in Sanscrito e significa “abile mezzo/tecnica” o “metodo” e si riferisce a qualsiasi attività, abilità, esperienza o pratica che aiuta qualcuno verso la realizzazione dell’illuminazione.