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A Tunisi dopo la svolta democratica (2011)

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Francesca Cadeddu racconta come si presenta la città e l’università di Tunisi a un piccolo gruppo di studio coordinato da Pier Cesare Bori invitato a parlare di cristianesimo

Sole, vento, clacson che suonano. Tunisi accoglie i suoi visitatori come tutte le città del sud del mondo, con i colori vivi e la luce abbagliante che si riflette sui muri bianchi. Tutt’intorno sono tante le bandiere che sventolano in cima agli edifici, impavide davanti al vento forte, quasi a ricordare ad ogni angolo che la Tunisia è viva e lotta per il suo futuro.

Approdiamo all’aeroporto ‘Cartagine’ in missione grazie alla Fondazione per le Scienze Religiose Giovanni XXIII, che ha rapporti internazionali straordinari. Questi rapporti, innanzitutto accademici, significano per la Fondazione voluta da Giuseppe Dossetti nel 1953, aprire, o almeno tentare di farlo, dei canali di condivisione e di conoscenza reciproca, che consentano di smontare le caricature che troppo spesso gli uni hanno degli altri. E creare dei luoghi che possano essere una solida base, sulla quale, chi vuole, può costruire rapporti più estesi e che possono esulare dallo studio delle scienze religiose. Con questo spirito, abbiamo accolto l’invito degli amici tunisini ad andare in un momento straordinario per il loro paese; perché il dibattito scientifico e accademico può servire e deve essere utilizzato da tutti, per acquisire confidenza.

Nel percorso dall’aeroporto all’albergo Emna guida in un traffico che ricorda quello di Napoli, ordinatamente confuso, e discute in modo vivace al telefono. Ci racconta del fermento che il vento democratico ha portato: tutti vogliono partecipare, tanti sono i partiti che nascono, grande è l’impegno di chi, come lei, da un momento all’altro non è più parte di una minoranza all’opposizione e può lavorare per il futuro del Paese.

Arriviamo alla Kasbah, la piazza-fulcro della protesta che si innalza davanti al ministero degli interni, fiera con le sue bandiere alzate: oggi un gruppo protesta contro l’arrivo di Hillary Clinton, domani un gruppo di lavoratori protesterà per il lavoro. Nessuno è più disposto a perdere l’occasione di esprimere il proprio pensiero, sia esso di accordo o di disappunto. E’ questa la sensazione che ci accompagna per un lungo tratto di Avenue de France, dove la democrazia si fa viva: gruppi di uomini, donne e giovani si riuniscono spontaneamente per discutere di quello che pensano, di cosa si aspettano, di ciò che credono sia giusto fare.

In queste piazze la svolta democratica è arrivata come un fulmine a ciel sereno: “La gente andava verso la polizia mostrando il petto nudo e inginocchiandosi e chinando il capo davanti alle armi” così ci raccontano increduli Hammadi e Mohammed, che il 14 Gennaio seguivano le proteste dalla terrazza dell’Hotel International, “e dopo tre ore Ben Ali è andato via, senza un colpo esploso”. Il motivo della resa così repentina ancora non è chiaro, forse per salvare il patrimonio della famiglia, forse solo per salvare la pelle. Se non fosse per il filo spinato intorno ai ministeri e alla piazza antistante l’ambasciata francese, nessuno potrebbe dire che in questa città due settimane fa le proteste sono state così impetuose. Il traffico scorre, i negozi sono affollati, i tavolini dei bar tutti occupati dai giovani, 60% della popolazione totale. Uno su tre non ha lavoro.

Ci chiediamo quali possano essere i risvolti di questa transizione democratica. Gli amici che ci accolgono sono immersi nelle attività dei gruppi politici, nelle associazioni, nella creazione del comitato di riforma costituzionale, ma Sami, che vive un’altra realtà, quella di un pescatore della laguna di Tunisi, El Bahira, ci racconta nel suo timido italiano il disagio del popolo, disorientato da questo gran pensare e preoccupato per tutto quello che bisogna fare.

Il primo passo sarà eleggere la Costituente che riformi la Carta Costituzionale, questione che pone il problema di chi debba essere o meno eleggibile. Allo stato attuale sono presi in considerazione avvocati e personalità riconosciute: perché includere i giuristi e non i politologi? Sulla base di quali criteri si definiscono le personalità pubbliche? Quale è lo spazio per i tecnici? E’ tanta la fiducia nella politica intesa come modalità di agire pubblico, e chi ha già un ruolo è deciso a mettersi in gioco in prima persona. Tornano persino i tunisini che per i più svariati motivi risiedono all’estero da tempo, soprattutto quelli che si sono formati e hanno studiato in Francia o in Germania, disposti anche a lasciare il loro lavoro per un futuro incerto, e che con ogni probabilità andranno a rinforzare le fila della nuova classe dirigente.

Tra chi guarda invece oltre le elezioni del 24 Luglio il dibattito si accende sul destino del primo articolo della Costituzione, che recita: “La Tunisia è uno Stato libero, indipendente, sovrano; la sua religione è l’Islam, la sua lingua l’arabo e il suo regime repubblicano”. Lo spettro politico si ricompone qui tra i radicali, determinati a eliminare qualsiasi forma di riferimento religioso, gli islamisti, che intendono la religione islamica come la religione del popolo e quindi dello Stato, e i moderati, che cercano la strada per una secolarizzazione che non significhi necessariamente relegare la fede alla sfera privata. E’ difficile trovare la giusta formulazione per un articolo che si pone alla base di tutto il sistema, e che per questo traduca in parole ciò che accomuna un popolo per il 98% musulmano. Bisogna fare uno sforzo di immaginazione, e pensare ai principi che potranno rimanere saldi nonostante il passare del tempo, con tutte le novità che la democratizzazione, ad oggi mai esperita, porterà con se.

Ne discutiamo in occasione della conferenza sul cristianesimo che ci vede protagonisti ospiti della nuova Biblioteca Nazionale. E’ stato presentato lo stato delle ricerche sul cristianesimo antico in corso presso la Fondazione: Davide Dainese ha discusso dei problemi legati alla trasmissione dei testi antichi e ha parlato della formazione delle dottrine teologiche e delle istituzioni cristiane, con riferimento ai lavori svolti e a quelli in fieri. In particolare la ricerca sulla Vita di Costantino di Eusebio di Cesarea pone la questione – onnipresente  - del rapporto della religione con il potere. Francesca Cadeddu ha parlato di religione civile e libertà di religione negli Stati Uniti, cercando di proporre una lettura del rapporto tra politica e religione che veda il processo di modernizzazione non necessariamente contestuale a quello della secolarizzazione. “Rappresentare Dio? Il cristianesimo” è stato il tema affrontato da Pier Cesare Bori. La tesi di fondo è che solo l’umano come tale secondo la Bibbia può rappresentare Dio, né il potere politico né quello religioso hanno questo diritto. L’uomo come rappresentante di Dio è un’idea che ha avuto nella modernità una grande importanza e ancora potrà averne anche nella ricerca di democrazia nei paesi islamici: il Corano infatti la stessa idea. Benché l’uditorio fosse non solo laico, ma fortemente critico verso la religione, il discorso ha trovato, pare, un pubblico molto attento e riflessivo. Il dialogo si fa più acceso sul tema del rapporto tra il potere e la religione, sul ruolo che questa possa avere all’interno dell’arena politica e dello spazio pubblico. E’ evidente che la storia europea non può essere il giusto paradigma, e ci chiediamo se sia realizzabile l’idea di una repubblica democratica islamica o se forse non sia meglio una dichiarata laicità, secondo il modello turco.

Poi però torniamo tra i vicoli del suk e scorgiamo problemi diversi, concreti, come quelli del ragazzo che ci vende un quadro dipinto con l’azzurro e il bianco di Tunisi e delle sue strade: studia scienze politiche, lavora per mantenersi gli studi, non vuole lasciare Tunisi come i tanti profughi che arrivano in Italia. Ma se i turisti non torneranno a girare per le vie della Medina sarà difficile per lui continuare a studiare. Combinare le microesigenze di questo ragazzo (e delle centinaia di studenti che con lui hanno fatto la rivoluzione) con le macroesigenze del sistema-Paese sarà la vera sfida per la futura classe politica.

Nonostante le minacce, ci coglie un po’ impreparati la repentina dichiarazione di intervento in Libia delle forze Nato, la guerra è a soli trecento chilometri da noi. Il signor Hayder, proprietario della casa che ci ospita, è spaventato dalle ripercussioni che le operazioni militari potrebbero avere sul suo Paese: ad oggi gran parte dei sessanta mila lavoratori tunisini in Libia sono tornati a casa, con le loro famiglie, seguiti dai tanti profughi che si riversano sulle coste italiane. Il rifiuto della cessione delle basi operative agli statunitensi, motivo della visita scortese della Clinton, è frutto anche di questa paura: ‘Il est fou’, dicono di Gheddafi, hanno paura di ritorsioni sul territorio, hanno paura che lo sviluppo del conflitto minacci la loro transizione. Nonostante questo, raccontano con orgoglio come accolgono i profughi che riescono a superare il confine: sono tanti i tunisini impegnati per conto dell’ONU per le funzioni di prima assistenza e le autorità tunisine sono state elogiate dalla Commissione Europea per la prontezza della risposta che hanno saputo dare alla crisi.

In attesa della fine del conflitto libico, i tunisini si impegnano per il loro futuro democratico, riprendendo la vita nelle università, segno importante della ricerca di una dialettica continua e di una riflessione collettiva. Ed anche e soprattutto il segno del continuo interrogarsi sul progresso della società e sugli strumenti di garanzia dei diritti individuali.

[Questo intervento è stato pubblicato in Inchiesta 172, 2011. In relazione alla Tunisia, Siria e Libano in Inchiesta  169, 2010 è stato pubblicato il Dossier: “Il mondo arabo e i mass media” a cura di Elisa Pelizzari]


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