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Meditazioni sulla presenza (2011)

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Queste meditazioni possono essere così ricapitolate:

 

-credere nella vita e nell’amore, accettando che ogni cosa tuttavia finisca e si trasformi

-tanto più dimenticanza dell’io e del mio e tanto meno sofferenza

-la comunione, inesprimibile, con Colui che è stato trafitto

-la comunione con quanti hanno sofferto del mio stesso male

-i miei cari, gli amici e la dolce conversazione con loro

-non avvinghiarsi non fuggire

 

1. Yunus Emre e Iacopone

 

Tra i doni che la malattia ha portato con sé c’è quello di capire meglio la poesia di autori come Yunus Emre. Ho tradottto dall’inglese una sua poesia, tradotta dal turco da Judith Brown, in Friends Journal, maggio 2011. Spero non sia troppo lontana dallo spirito dell’originale che non conosco. La seconda viene dalla bella raccolta I mistici dell’Islam: antologia del sufismo, a cura di Eva de Vitray-Meyerovitch, trad. di Tubino,  Parma, Guanda, 199, 113 s. dalla quale traggo anche la notizia biografica: « È uno dei primi poeti, e il più grande, che abbia scritto in lingua turca. La sua vita è poco conosciuta: avrebbe vissuto fra la metà del secolo XIII e il 1320 circa.  La sua opera si compone di un lungo soprattutto del suo Diwan toccando i più letterati come i più umili, Yunus Emre ha sempre conservato una vastissima popolarità perfino in seno alla contadinanza turca, della quale incarna la sensibilità e l’anima profonda.».

Colpisce la somiglianza con la mistica francescana, che ho voluto sottolineare riportando la parte finale della Lauda 36 di Iacopone da Todi, in cui si parla del terzo Cielo, che ha nome “Nulla”,

 

 

Yunus Emre

 

Un cuore mi fu dato che oltre il mio volere balza di stupore.

Un momento esulta, un momento è preda del dolore.

Un momento ecco l’inverno con suo freddo estremo

quello dopo ecco un giardino straboccante di bellezza.

Un momento son muto, non una parola dalle mie labbra,

subito dopo,  perle dalla mia lingua: anche gli afflitti si fan cuore.

Un momento il mio cuore spicca il volo,e  poi sprofonda a terra.

Un momento è una goccia, e poi invade l’oceano.

Un momento è stupido, incapace di pensiero

quello dopo regge il paio con Luqman* e Ippocrate.

Un momento è un gigante, poi una fata in una terra desolata.

Dopo mette le ali, si fa potente come i sultani,

il momento dopo entra in moschea, faccia a terra,

dopo ancora diventa cristiano e legge il Vangelo come i preti.

Un momento come Gesù, può far risorgere dai morti,

l’altro dimora nel palazzo dell’arroganza, a fianco del Faraone.

Un momento è Gabriele che spande benedizioni…

 

Stupefatto, il povero Yunus finisce la sua lode con un salto di gioia!

 

 

_____________________________________________________

Io posso offrire l’ anima mia al sacco [saccheggio, razzia]

poiché ho trovato ormai l’Anima delle anime;

la mia bottega io posso offrire al sacco:

che m’importa, adesso, la perdita o il guadagno?

 

Ora i miei dubbi io posso offrire al sacco:

perché al mio io ho rinunciato;

del velo che mi copriva gli occhi mi sono sbarazzato,

e sono giunto all’unione con l’Amico.

 

Io posso offrire la mia lingua al sacco:

poiché sono adesso spogliato del mio io;

l’intero regno del mio essere è invaso dall’ Amico,

e colla mia lingua, oggi, è solo Lui che parla.

 

Io posso offrire il mio palazzo al sacco:

perché ho spezzato tutti i miei legami;

mi sono involato verso l’Amico,

e sono disceso al palazzo delF amore.

 

Io posso offrire il mio rimedio al sacco:

poiché, disgustato della dualità,

mi sono saziato alla mensa dell’Unità,

e ho bevuto il vino del dolore che viene dall’Amico.

 

Il mio universo io posso offrire al sacco:

perché solo quando l’essere mio mi lascia

l’Amico viene presso di me,

e di luce mi si riempie il cuore.

 

Io posso offrire il mio giardino al sacco:

perché sono stanco dei sogni interminabili,

stanco degli inverni e delle estati,

e il più meraviglioso dei giardini ho ritrovato.

 

Quali dolci parole, Yunus, tu dici qui:

le tue frasi sono come zucchero e miele.

Io posso offrire tutto il mio sciame al sacco,

poiché ormai il miele dei mieli ho ritrovato.

 

*Luqman è una figura di saggio secondo il Corano

 

 

Iacopone da Todi, Lauda 36:

 

[...] Questo cielo à nome None*

(mozz’a lengua entenzione),

là ve l’Amore sta en presone

en quelle luce ottenebrate.

Onne luc’è ‘n tenebria

e ['n] onne tenebre c’è dia;

la nova filosafia

l’utre vecchi à descipate.

Là ‘v’è Cristo ensetato,

tutto ‘l vecchio ènne mozzato,

l’uno en l’altro trasformato

en mirabele unitate.

Vive amore senz’affetto

et saper senza entelletto;

lo voler de De’ òl eletto

a ffar la sua voluntate.

Vivar eo e[n] non eo

e l’esser meo e[n] non esser meo!

Questo è ‘n un tal travieo**

che non ne so difinitate.

Povertat’è null’avere

e nulla cosa poi volere

e onne cosa possedere

en spirito de libertate.

 

 

*none: non-essere cfr. Da l’essere a lo none, 90 16.

**travieo deviazione, eccezione alla norma

 

18 settembre 2011

 

 

2. Colui che è stato trafitto

 

Con esitazione ancor maggiore che negli altri messaggi, riprendo a commentare quel che mandai agli amici, riferendomi a pensieri o emozioni che mi accompagnano in questi mesi difficili. Fra cui anche: «la comunione, inesprimibile, con “Colui che è stato trafitto”». Questo mi ha aiutato e mi aiuta. Non mi aiuta invece esprimere ed esplicitare, e devo farmi forza.

Evidentemente qui ci riferisce agli ultimo momenti di Gesù in croce, secondo Giovanni. Vedi il commento della bella versione di Giancarlo Gaeta. Il soldato romano, visto che il condannato è già morto, non pratica il crurifragium, la spaccatura delle gambe con una mazza, per accelerare  la morte, ma gli trafigge con una lancia il fianco. Ne escono escono sangue e acqua, testimone l’evangelista stesso. Ciò  costituisce l’adempimento di quel che era profetizzato nella Scrittura: «Non gli sarà rotto alcun osso» e «Vedranno colui che hanno trafitto». Il primo riferimento a Esodo 12  intende mostrare che Gesù è come, anzi è il vero agnello per la la cena pasquale, di cui non si spezzerà osso.

Il secondo riferimento intende mostrare che nella morte di Gesù, trafitto dalla lancia, si adempie la profezia del profeta Zaccaria (12, 10), che letteralmente dice: «Guarderanno a me, colui che hanno trafitto – hibbitu elay et asher daqaru – e faranno pianto su di lui (‘alaw), ne faranno lutto come si fa lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito ». È YHWH che parla, e  ci si riferisce al lutto  che gli abitanti di Gerusalemme faranno per la morte di un misterioso personaggio, in cui YHWH si riconosce al punto di dirsi trafitto Egli stesso.

L’esegesi ebraica antica vede in questo personaggio il re Giosia, effettivamente  trafitto da una freccia a Meghiddo, e dietro di questi, tutto Israele, trafitto da Nabuchodonosor. I cristiani vi hanno visto evidentemente il Messia. Gli storici delle religioni hanno scoperto dietro al lutto un culto del dio Hadad, o Adonis, o Baal, divinità legate al nascere e morire della vegetazione.

A me piace la prima parte del versetto di Zaccaria: «Riverserò sulla casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e consolazione, guarderanno a me, colui che hanno trafitto e faranno pianto su lui». Questo spirito di grazia e di consolazione mi suggerisce di non cercare di determinare e contrapporre questa o quella interpretazione, e di rimanere piuttosto  in «comunione  inesprimibile», aperto e tenero verso chi  sia stato trafitto, chiunque egli sia, divinità o creatura umana, individuo o popolo, portatore comunque di grazia con la sua ferita.

Vorrei anche aggiungere due elementi.

Sulla lancia del soldato Longino che avrebbe trafitto il Messia vi sono tante leggende, alcune delle quali legate al potere, di cui essa diviene patrimonio e simbolo, particolarmente del Sacro Romano Impero, di cui si appropria anche il nazismo. Ma c’è una storia gentile che va ricordata. «Una delle figure più memorabili nel ciclo romanzesco della Tavola rotonda è quella del Roi mehaignié (cfr. «magagnato»), del re ferito o mutilato, che regna una terre gaste, un paese devastato. Secondo Chrétien de Troyes, il re fu ferito in battaglia tra le cosce e mutilato in modo tale che non può reggersi in piedi né cavalcare. Per questo se si vuole divertire, si fa mettere su una barca e va a pescare all’amo…Il re mutilato guarirà soltanto quando Galaad, alla fine della quête, ungerà la sua ferita col sangue rimasto sulla punta della lancia che ha ferito il costato di Cristo» (Agambem, Il regno e la gloria, 2009, 83).

Il secondo è dal Secondo quartetto  di T.S. Eliot (traspare l’allusione a Cristo e alla chiesa).

 

«Il chirurgo malato maneggia l’acciaio

che indaga la parte malata;

sotto la mano insanguinata sentiamo

la compassione tagliente dell’arte di chi guarisce

e scioglie l’enigma del diagramma della febbre.

 

Nostra sola salute è la malattia

se obbediamo all’infermiera dolente

la cui cura costante non è di piacere

ma di ricordarci della nostra maledizione e quella di Adamo

e che per guarire la nostra malattia si deve aggravare» (versione di A. Tonelli)

 

29 settembre 2011

 

 

3. Qui est homo qui no fleret

 

Ho già detto che tra i doni della malattia per me c’è una comunione inesprimibile con “colui che è stato trafitto”. “Videbunt in quem transfixerunt” (Giov. 19, 37 ), che  nel profeta Zaccaria (12, 10) suona addirittura: “Guarderanno a me che hanno trafitto e faranno duolo su di lui» (così il testo ebraico, e poi la Vulgata, la Bibbia di Lutero e la King James, mentre la Settanta svicolava stranamente: «e danzeranno»).

Uno dei doni della malattia è di poter guardare le cose in modo diverso,  più vero forse. Un amico ribadiva: solo la malattia è “innocente”. Infatti nel guardare noi stessi e il mondo, solo questo punto di vista ci appartiene veramente, in  ogni altra condizione c’è ambiguità, Mi ricorda frate Francesco; solo della croce ci si può gloriare, «imperò che in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, però che non sono nostri ma di Dio», finiva così il racconto della perfetta letizia.

La mistica francescana ha guardato all’umanità del Messia, alle sue piaghe, e al suo costato trafitto, e al cuore della Madre, cui un coltello trapassò il cuore, secondo la profezia (Iacopone da Todi, Pianto della Madonna). E anche: «Stabat mater dolorosa iuxtra crucem, lacrimosa…Quis est homo qui non fleret…» (Anche le lacrime sono un dono di questi giorni: «manderò uno spirito di grazia e consolazione…»)

 

Nel Deus patiens, nel Messia condannato e trafitto sta il proprio della pietà cristiana, da quella popolare sino  al sublime del maestro qui riprodotto e dello Stabat Mater di Pergolesi.

Clicca qui per vedere il video incorporato.

E tuttavia sento – mi perdonino i miei amici la cui fede cristiana è saldamente strutturata – sento che appena vado più avanti nell’assecondare  con la mente queste emozioni le difficoltà proliferano.

Quella morte: come, perché, a causa di chi, persino che quella morte abbia avuto luogo; come debba essere interpretata per rapporto alla divinità,  come debba essere professata, come debba essere predicata e resa attuale nei sacramenti, amministrati da chi… sono questioni che hanno diviso e ha creato odi micidiali tra credenti della stessa stirpe abramica e o addirittura cristiani.

Come potrei accettare di essere diviso dai miei amici ebrei e musulmani per queste cose? Senza di loro io rifiuto di entrare alcun Luogo Promesso. Già nel mio funerale – l’ho già detto  – non voglio rito che divida le persone.

E poi: la morte come tale. C’è l’obiezione sapienziale per esempio buddhista (ma potrebbe essere anche Qohelet): la sofferenza fa parte del nascere e tramontare di ogni elemento. “Il corpo è siffatto che  può essere colpito dalle mani, può essere colpito da zolle di terra, può essere colpito da bastoni, può essere colpito da spada” Majjhima Nikaya, I, 186. Così il Canone buddhista che altrove insegna: piuttosto che indagare sulla natura della freccia (chi l’ha lanciata, di che cosa sia fatta, se sia avvelenata o no, e vendicarsi…), occorre affrettarsi a cavarla, anzitutto impedendo che si aggiunga la seconda freccia, quella del dolore mentale che raddoppia quello fisico.

Non è questo più semplice, più pratico, più “salutare”?

Il vostro amico Pc preferisce questo. Però rimane il desiderio stare in comunione con il Trafitto, e con ognuno che lo è stato: senza far lavorare la mente, in silenzio.

Mi piace molto il parroco dell’ultimo film di Olmi, e soprattutto quello che scrive John Woolman, un quacchero americano del Settecento (chi è? coraggio gente, informarsi): «Senza riserve rispettavo  sette  e le opinioni, convinto che persone  sincere e oneste, che si trovano in ogni società, se amano veramente Dio sono a lui accette. Dal momento che vivevo sotto la croce e seguivo semplicemente le manifestazioni della verità, la mia mente di giorno in giorno era più illuminata; lasciavo che i miei conoscenti di una volta mi  giudicassero come volevano, perché trovavo  più sicuro per me  vivere in solitudine e  queste cose sigillate nel mio petto. Mentre ponderavo in silenzio su questo cambiamento avvenuto in me, non trovavo linguaggio adatto ad esprimerlo, né mezzo per darne  ad altri un’idea chiara. Guardai alle opere del Signore in questa visibile creazione e fui coperto da religioso timore; il mio cuore era tenero e  spesso contrito, e un amore universale per le creature come me  mi crebbe dentro. Chi è passato  per lo stesso sentiero capirà queste cose».

 

Post scriptum.

L’unico punto del Nuovo Testamento in cui si dice direttamente che Cristo è Dio è nell’esclamazione di Tommaso detto Didimo. Gesù appare agli discepoli: «”Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”. Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”» (Gv 20, 27 s.). Ricordiamo che di questa ferita YHWH  stesso dice: «Hanno guardato a me che hanno trafitto». Non ho trovato questa spiegazione nei commenti anche più recenti, ma con emozione scopro che qui, direttamente,  Dio stesso si fa riconoscere nella ferita.

 

14 ottobre 2011

 

 

4. Pazienza

 

«La comunione con chi ha sofferto dello stesso mio male». Tra i frutti della sofferenza e tra i suoi doni, c’è quando si riesce un poco a mettere da parte l’«io-mio», c’è l’apertura del cuore a chi soffre, a cominciare da quanti hanno sofferto dello stesso male. Ho presente soprattutto uno, il mio maestro delle elementari quarta e quinta, e padre di un mio caro amico. E poi ci sono i 1600 morti di mesotelioma a Casale, le 6000 persone che si sono costituite nel processo che è in corso a Torino.  Il cuore si apre allora ad una richiesta di giustizia, di rispetto della dignità. Metto solo una foto, che ho preso a settimana scorsa, visitando il luogo dello stabilimento in demolizione.

Prevale in me il senso della insufficienza delle parole. Ma c’ è anche la difficoltà a farsi capire. È l’esperienza che ho avuto anche ieri, parlando alla radio, a  Uomini e profeti. La mia gentile interlocutrice mi ha poi scritto, ringraziandomi per lo «scambio profondo». Ho risposto ringraziando per avermi cercato, ma ho anche detto che non mi è sembrato che ci fosse stato scambio. «Ho parlato con il cuore in base alla mia esperienza spirituale, delle cose “utili”, cioè salutari benefiche (terminologia del dhamma), a partire dalla luce (Gv 1,9 ) cui mi affido con fiducia». Non ho trovato una vera corrispondenza.

«Pazienza» mi suggerisce P. con affettuosa ironia. Il fatto è che accanto al desiderio di contemplazione e di comunione, ci sarebbe anche il desiderio di che si capisse quello che dico, e che gli altri dicessero quello che pensano, invece che citare qualcos’altro, fosse pure la Bibbia o il Vaticano II…

Ahi,  Pc  perde la pazienza….

 

23 ottobre 2011

 

5. I miei cari, gli amici e la dolce conversazione con loro

 

Un amico, rispondendo al mio messaggio precedente (Pazienza), interpretava e dava maggior chiarezza al mio stesso pensiero scrivendomi: «La malattia è queste due cose opposte, che tu oggi mi fai intravedere: comunione e solitudine. Comunione perché, come scrivi, apre a una solidarietà impensabile… Per altro verso la solitudine, la difficoltà di essere compreso… Io penso che il libro di Giobbe rimanga un testo straordinariamente esatto di questa duplice esperienza di comunione e solitudine». 
Accade proprio così, grazie. Vorrei però insistere sulla prima parte e dire a me stesso:
«Si, Pc, hai ricevuto tanto, e la tua ripresa di queste settimane deve molto a questa continua, vera “cura” di cui hai potuto godere. Hai sentito tanto vicini i tuoi. Ha aiutato il fatto stesso di sentirti più debole, più vulnerabile, più bisognoso; il dover smettere la tua aria di autosufficienza e di superiorità. Spesso hai sentito di dover chiedere perdono agli amici per le disattenzioni e le superficialità del passato. Avete riso insieme, pianto insieme. Sii grato».

 

28 ottobre 2011

 

6. Non avvinghiarsi non fuggire

 

«Questo è stato detto dal Beato, è stato detto dall’Arahant, e così io ho udito: «O monaci, deva e uomini sono pervasi da due convinzioni che guidano la loro vita: alcuni si avvinghiano ed altri fuggono; coloro che hanno capacità di discernimento, invece, osservano (olīyanti eke, atidhāvanti eke; cakkhumanto ca passanti). E come, o monaci, alcuni si avvinghiano? I deva e gli uomini, o monaci, godono dell’esistenza ed in essa provano diletto e soddisfazione. Quando il Dhamma viene loro rivelato allo scopo di por fine alle esistenze la loro mente non sprizza, non diviene serena, non si quieta, non si affidano a questo insegnamento. Così, o monaci, essi si avvinghiano.

E come, o monaci, alcuni altri fuggono? Essi, sentendosi spauriti, umiliati, nauseati da quest’esistenza, provano un dolce richiamo per la non-esistenza. E dicono: “O Signore, questo sé, quando il corpo perisce, sopraggiunta la morte, è annichilito e distrutto e non esiste più dopo questa morte. Ciò è pacificato, è eccellente, è reale”. Così, o monaci, essi fuggono.

Come infine, o monaci, alcuni altri, che hanno capacità di discernimento, osservano? Qui, in questo insegnamento, un monaco vede ciò che è sorto come ciò che è sorto. E vedendo ciò che è sorto come ciò che è sorto, egli pratica il sereno disincanto per ciò che è sorto, il distacco da esso, la sua estinzione. Così, o monaci, coloro che hanno la capacità di discernimento, osservano»(Canone Palit, Itivuttaka, 49, II.12, trad. a cura di C. Cicuzza).

 

Osservare, contemplare: non è estetica, o scienza (Caravaggio, Galileo: sto leggendo A.M. Panzera, Caravaggio, Giordano Bruno e l’invisibile natura delle cose), non è la theorìa filosofica (da Platone e Aristotele, a Hegel e oltre), benché i contatti siano tutti importanti. È un osservare con discernimento (pasyati. cfr. √spec-; cakkhumanto “oculatamente”), che ti pone al di fuori del cerchio delle cose mondane, pur essendovi dentro. È in questo la grandezza di Gotama Buddha, l’aver capito che le cose sono nella mente, e nell’aver scoperto la «via media» (tra ascesi estrema e rilassatezza), il “sereno disincanto» attraverso la visione profonda delle cose come sono (vipassana).

 

«Quando in ciò che è visto vi sarà solo ciò che è visto,

in ciò che è udito vi sarà solo ciò che è udito,

in ciò che è percepito vi sarà solo ciò che è percepito

e in ciò che è conosciuto vi sarà solo ciò che è conosciuto,

allora tu non ti identificherai più con quello

e quando non ti identificherai più con quello allora non sarai più in quello;

quando non sarai più in quello allora non sarai più né qui né al di là,

né in ambedue i luoghi»(Udāna, 1, 10)

 

«Non sarai né qui né là», ecco.

Per trovare cose analoghe nel cristianesimo, bisogna cercare in Paolo, nei momenti   in cui dice  «il tempo è ormai abbreviato… quelli che usano di questo mondo, come se non ne usassero, perché la figura di questo mondo passa » (1 Corinti 7). L’approssimarsi della fine non è l’essenziale, è essere già di là della morte, attraverso alla partecipazione della sorte del Messia.  Ed è anche partecipazione allo sguardo Dio sul mondo: «Beati i puri di cuore».

Giorgio Agamben sta scoprendo queste cose, gli piace tanto quell’ōs mē, «come se» (non) e ci fa piacere. Sono cose  che ci hanno riempito la giovinezza. Baci Pc

 

P.S. A proposito, leggo senza disagio questi testi, che pure hanno o avranno nella loro ricezione un forte accento monastico. Uno dei doni (un altro ancora!) è quello di potermi ritrovare nella condizione cui avevo tanto pensato da giovane (tra Camaldoli – ci sono un paio di miei saggi su Vita monastica, la rivista dei cari camaldolesi, nel ’62 – e Bose nascente) e dalla quale mi teneva lontano un desiderio di rendere pieno il «sì alla vita e al mondo».  Trovavo quest’invito nell’essenza stessa della Bibbia, a partire dalla creazione, e in Ireneo di Lione. Posso dire di aver ben profittato.

E ora, finalmente, quasi senza volerlo, siamo nel brahmacarya! Bori, sei fortunato a poterti così godere la vita!

 

5 novembre 2011

 

I messaggi di Pier Cesare Bori si possono trovare su Facebook, Una via

 


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